LA CRISI NON FERMA LA TAGLIOLA DELLE SOCIETA’ DI COMODO

29 aprile 2020

Dario Deotto

     Dunque, nessun intervento, con la conversione in legge del Dl "cura Ita­lia", che vada a sterilizzare la discipli­na delle società di comodo. Nemme­no in relazione al periodo d'imposta 2020, come era stato, invece, propo­sto con un emendamento che preve­deva una causa di disapplicazione generalizzata per tale periodo. Se ne parlerà, forse, con l'annunciato "de­creto Aprile".

    La questione, tuttavia, al di là dell'applicabilità o meno per i12020 di un'altra causa di disapplicazione (si veda in proposito quanto ripor­tato online da Giorgio Gavelli su NT+ Fisco 1'8 aprile) risulta molto più ampia.

Il periodo 2019 e gli anni passati

     In primo luogo, il problema si pone immediatamente per il periodo d'imposta 2019, per il quale le impo­ste devono essere versate quest'an­no. E per il quale non esistono corret­tivi specifici decisi dal legislatore, ma solo i rimedi "ordinari".

     La questione però investe anche l'attività accertativa relativa agli anni precedenti. Le problematiche sono di diverso tipo. Senz'altro quella che, a prima vista, risulta la più evidente è da rife­rirsi ai coefficienti che rilevano ai fini del cosiddetto test di operatività, che risultano assolutamente fuori mer­cato (6% per gli immobili).

    Tuttavia, vi sono degli aspetti sottostanti che rendono ancora più paradossale la vicenda delle società di comodo. E che imporrebbero un superamento di questa disciplina nell'attuale contesto di crisi econo­mica (si veda anche Il Sole 24 Ore del 20 aprile).

La presunzione di evasione

     Le società di comodo sono state di­sciplinate con l'articolo 3o della legge 724/1994. La norma si è sempre pro­posta di colpire il cosiddetto «abuso della persona giuridica» che - lo chiariamo subito - non ha nulla a che vedere con l'abuso del diritto; anzi, semmai, si tratta di una vicenda (pre­suntiva) inquadrabile nell'evasione.

    In sostanza, la norma vuole colpi­re quelle società che, al di là dell'eti­chetta societaria, sono state costitui­te per gestire il patrimonio nell'inte­resse dei soci, anziché svolgere un'ef­fettiva attività economica. In questo senso si sono pronunciate anche le circolari 5/E/2007 e 7/E/2013 (para­grafo 6) delle Entrate.

     La norma conferma espressa­mente questa finalità: attraverso il test di operatività è stata infatti in­trodotta una presunzione legale (re­lativa) basata sul presupposto che determinati beni del patrimonio so­cietario (immobili, partecipazioni, crediti, eccetera) normalmente pro­ducono dei "frutti" (cioè dei ricavi), così che, se non ne producono alcuni ritenuti minimi, nasce il sospetto di una non operatività della società, di una presunta simulazione dello schermo societario.

    Nella norma, in pratica, sono racchiuse due presunzioni legali di evasione. Alla prima di "non opera­tività" della società (attraverso il test), viene infatti associata la se­conda, rivolta proprio alle società non operative (il fatto presunto del­la prima presunzione), per le quali entra in gioco la presunzione di cui al comma 3 della legge 724/1994 sul reddito minimo e sulla base impo­nibile Irap minima.

    Tuttavia, se la società fornisce la prova della propria operatività (pri­ma presunzione), cioè che svolge ef­fettivamente un'attività economica, la seconda presunzione (quella del comma 3 della legge 724/1994) non può trovare applicazione. Questo perché si tratta di presunzioni legali a catena - purtroppo ammesse dalla nostra giurisprudenza (solo quelle legali) - per le quali, però, se si forni­sce la prima prova contraria, la se­conda, evidentemente, non può tro­vare applicazione.

     Il fatto è che molte volte la prova contraria viene erroneamente individuata nelle oggettive situazioni che hanno impedito il conseguimento dei ricavi minimi. Questo per effetto di alcune sentenze della Cassazione (21358/2015, 8218 e 5080 del 2017, 29762/2019) secondo le quali il con­tribuente deve fornire la prova con­traria di tali oggettive situazioni. Nulla di più inesatto. Le oggettive si­tuazioni che hanno impedito il con­seguimento dei valori minimi ri­guardano (basta leggere la norma) soltanto l'eventuale filtro ammini­strativo dell'interpello (è solo in que­sto caso che la norma parla di ogget­tive situazioni).

Dalla norma emerge, in sostanza, una sorta di disallineamento:

  1. nel filtro amministrativo facol­tativo dell'interpello si deve da­re dimostrazione delle situazioni og­gettive che hanno impedito il conse­guimento dei ricavi e dei valori mini­mi (questo vale anche per la possibile auto-disapplicazione da parte del contribuente);

  2. nell'eventuale fase processuale successiva occorre fornire pro­va che la società svolge un'effettiva attività economica (o dei motivi per i quali non può svolgerla) e che, quin­di, non abusa della persona giuridica.

Le società In perdita

   Un altro paradosso è che a volte si distingue tra società di comodo e società in perdita sistematica. An­che qui basterebbe leggere la norma (il Dl 138/2011). Questa individua il conseguimento di perdite in cinque periodi quale elemento determi­nante la presunzione di "non opera­tività". In sostanza, anche le società in perdita vengono considerate di comodo o non operative (che è la stessa cosa).

    Il fatto è che le società in perdita non hanno proprio alcun nesso con la condizione (presunzione) di non operatività, cioè con l'abuso della persona giuridica.

 

(Dal il Sole 24 Ore del 27/04/2020)

 

 

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